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Chiesa di Sant'Eligio Maggiore

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Descrizione

È tra le più antiche costruzioni angioine di Napoli, introduce al Borgo degli Orefici ed è situata nei pressi dell’antico Campo Moricino, l’odierna piazza Mercato. La Chiesa fu costruita nel 1270 in onore dei Santi Eligio, Dionisio e Martino, per volere di Giovanni Dottun, Guglielmo di Borgogna e Giovanni de Lionsper, tre potenti francesi frequentatori della corte di Carlo I d’Angiò. Protetta e frequentata dai reali angioini e aragonesi, l'edificio di culto fu poco dopo affiancato da un ospedale. Prima di rimanere inglobato nei vicoli che oggi lo circondano, ha assistito nei secoli ai tanti eventi luttuosi che hanno caratterizzato la storia della piazza: ha visto la prigionia di Masaniello, la morte di Eleonora Pimentel Fonseca e quella di tanti altri giustiziati nella Napoli di ogni tempo. Nel XVI secolo, sotto la dominazione spagnola, Don Pedro de Toledo istituì nell’ospedale anche un educandato femminile, dove le ragazze venivano avviate all’attività infermieristica. Del complesso fanno parte anche due chiostri, costruiti con pilastri di piperno, uno dei quali ornato da una fontana seicentesca. All’ingresso della Chiesa si trova un portale strombato, abbellito da motivi naturistici tipici del gotico francese; l’interno, dall’aspetto austero e spoglio, con una muratura in tufo giallo e piperno grigio, è caratterizzato da una pianta con tre navate, su cui si aprono cappelle laterali e un abside poligonale. Nel corso degli anni è stato oggetto di numerosi restauri, di cui l’ultimo nel secolo scorso, in seguito ai gravi danni subito nel corso dei bombardamenti del 1943, che hanno ripristinato l’aspetto originario di tradizione gotica. Vi si custodiscono anche importanti opere, che testimoniano l’importanza e la ricchezza della Chiesa nei secoli: il “Giudizio Universale” del fiammingo Cornelius Smet, che qualcuno sostiene ritoccato da Michelangelo; una copia del dipinto di Francesco Solimena, raffigurante “Sant’Eligio” in adorazione; un dipinto di Massimo Stanzione. Su uno dei pilastri, verso il lato Ovest della Chiesa, sorprende la pittura quasi interamente conservata del XIV secolo, che ritrae “Papa Urbano V”, recante nelle mani le teste di Pietro e Paolo, simbolo canonico della sua raffigurazione; si staglia fiera, sul supporto di tufo, colorata di rosso, giallo e blu. Nel corso del Quattrocento, addossato alla Chiesa, fu eretto un arco che collegava il campanile con un edificio adiacente la struttura. Si tratta di un arco a due piani: il secondo, decorato con stemmi aragonesi, si dice ospitasse una stanzetta in cui i condannati a morte trascorrevano le ultime ore prima di essere giustiziati; l’orologio, invece, è posizionato sul primo piano di stile gotico. Su una delle due facce dell’arco, l’antichissimo orologio è caratterizzato dall’avere una sola lancetta, sull’altro lato dell’arco, invece, è nella cornice di un più tradizionale orologio a due lancette, che cela oscure storie. La prima ha una lunga tradizione e riguarda una leggenda del Cinquecento, tramandata da Benedetto Croce: si racconta che le due teste scolpite nella sua cornice altri non siano che Antonello Caracciolo ed una sua giovane vassalla. Il terribile Duca, invaghito della giovane, non riuscendo a conquistarla, fece con una scusa incarcerare il padre, ricattandola e chiedendo la sua mano in cambio della vita del padre. La famiglia, non potendo accettare tale angheria, piuttosto che cedere alla violenza si rivolse direttamente al Re Ferdinando d’Aragona ed alla Regina Isabella, che condannarono il Duca a sposare pubblicamente la giovane donna e subito dopo ad essere decapitato nel Campo Moricino. Il sodalizio ufficiale sarebbe servito così a lasciare in eredità alla giovane una grossa somma di denaro, come risarcimento del danno subito. La seconda storia è decisamente più recente e va ricercata nella tremenda esplosione della nave “Caterina Costa”, nel porto di Napoli poco prima della sua partenza il 28 marzo 1943. L’esplosione, avvenuta alle 15:00, lasciò traccia della sua forza in tutti i dintorni del porto fin nel cuore dell’orologio, che si fermò per una lamiera che lo raggiunse fermandone gli ingranaggi. Per anni, fino al 1993 quando fu restaurato, l’orologio segnò quel terribile orario come memoria per tutti i napoletani che di lì si trovavano a passare. Un’altra antica usanza unisce la Chiesa con la modernissima stazione Museo della Metropolitana Linea 1: qui è conservata la testa del cavallo in bronzo, la cosiddetta testa Carafa, che era parte di una statua equestre posta davanti Sant’Eligio, attorno alla quale si facevano girare i cavalli infermi. Il rito attorno alla statua equestre fu presto vietato già in epoca sveva. Re Corrado, infatti, fece fondere la statua eccetto la testa, che prima di proprietà della famiglia Medici passò poi ai Carafa. Tuttavia, a memoria di questo legame tra Sant’Eligio, considerato protettore di questi animali, ed il rituale della guarigione dei cavalli restarono i numerosi ferri che, come “ex-voto” per la guarigione, venivano inchiodati al portone della Chiesa.
Fonte: "grandenapoli.it"
Fonte immagine: "campaniacrbc.it - vesuviolive.it"

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